Ovvero “il lago di Como che ispirò la scoperta della fotografia”.

“… tutto a seni ed a golfi…” (*), d’una bellezza mozzafiato. Nei lontani anni trenta di due secoli fa il lago di Como CHIEDEVA d’esser ritratto. Con carta e lapis i gruppi di turisti si sfidavano nel coglierne e rappresentarne le bellezze. Ma lui, ambizioso ed orgoglioso parlamentare britannico, botanico e matematico, apprezzato trentacinquenne fresco di matrimonio, neppure con la “camera lucida” riusciva ad ottenere uno schizzo almeno confrontabile con quelli della sua giovane sposa Constance Mundy e del loro gruppo di amici.

Della “camera lucida” si era servito Keplero già nel XVII secolo, in seguito l’oggetto venne brevettato da un certo William Hyde. Si trattava di due semplici lenti, una convergente e l’altra divergente che, poste in cima ad un’asta, permettevano all’artista di vedere sovrapposte le immagini del soggetto da ritrarre e del relativo schizzo sul foglio da disegno.

Esiste una versione molto moderna e “connessa” della “camera lucida”.

Costa poco: solo 4,49 €.

La ditta Gibbs Studios la pubblica su Apple Store. La APP ha lo scopo di “aiutare” il possessore di uno smartphone o di un tablet nella realizzazione di ritratti realistici. E’ semplicissimo: prima si scatta la fotografia del soggetto da ritrarre. Quindi, posizionato l’iPhone o l’iPad in una posizione sopraelevata (ad es. su un alto bicchiere o un vaso da fiori) si richiama la App e successivamente la foto, in modo da vedere sulla superficie del display sia la fotografia che lo schizzo sottostante. Ecco, in un attimo, il nostro possessore dell’iPhone diviene un artista perfetto. E’ un po’ quello che facevamo noi ragazzi, negli anni sessanta, che “ricalcavamo”, appoggiati ad una finestra, il disegno di una foto o di una stampa.

Tornando alla bellezza del lago di Como, neppure con l’ausilio della “camera lucida” William Henry Fox Talbot riusciva ad ottenere un disegno quantomeno passabile. L’orgoglioso gentleman ne dedusse quindi che la bellezza della natura poteva essere rappresentata solo dalla natura stessa. Fu così che il matematico, il botanico, il politico Fox Talbot divenne uno scienziato e, nonostante i suoi grandi meriti in molte discipline, viene oggi ricordato quasi esclusivamente come inventore del processo fotografico.

Lasciato il lago di Como e ripresi i lavori in parlamento, Fox Talbot (a proposito, “Fox” – volpe in inglese – era un nome che aborriva, e così spesso si firmava solo WHF Talbot) accarezzava un sogno per il quale iniziò a lavorare. Chiamò “hadowgraph” – o disegno delle ombre – l’immagine che rimaneva impressa su un foglio di carta imbevuto di una soluzione di cloruro d’argento, che veniva impressionato dalla luce dopo aver posto su di esso una foglia. Lo “shadowgraph” riproduceva in modo perfetto l’immagine della foglia, con tutte le sue ombre e venature.

Nell’autunno del 1834 Talbot riprese gli esperimenti. In quel periodo si trovava a Ginevra e, non disponendo di una camera oscura, chiese ad un amico artista di disegnare un panorama sulla superficie di una lastra di vetro rivestita di una vernice opaca. Talbot sovrappose la lastra a fogli di carta sensibile, che poi espose alla luce. Ottenne innumerevoli copie del disegno inciso sulla lastra. Questa tecnica, in seguito, venne chiamata “cliché-verre”, ed usata con successo in svariate discipline. Sempre durante il soggiorno ginevrino, studiò e perfezionò diversi metodi per “fissare” le immagini prodotte, in modo da impedire che la lenta azione della luce annerisse l’immagine. Perfezionando il precedente metodo, basato su ricche soluzioni di sale da cucina, introdusse come fissatore lo ioduro di potassio.

Talbot – Westminster Abbey

Incoraggiato dai suoi successi, Talbot si dedicò poi a migliorare la sensibilità dello strato fotosensibile, in modo da ottenere dei “negativi” in tempi minori e con maggiore facilità. Ho usato il termine “negativi” perché Talbot aveva già intuito che dal passaggio negativo-positivo era possibile ottenere un grande numero di copie della medesima immagine.

Tuttavia all’epoca lavorava con una macchina fotografica molto piccola e rudimentale. Era di legno grezzo e spesso la lasciava in giardino per lunghe esposizioni. La moglie Constance una volta la prese addirittura per una trappola per topi!

In due soli anni di lavoro e di ricerche Talbot ottenne però ottimi risultati, anche se non li considerava ancora validi per affrontare una pubblicazione. Il segreto della scoperta rimase per anni tra le mura domestiche!|

Tra il 1835 ed il 1838 Talbot si dedicò prevalentemente a studi di ottica e di matematica per i quali ricevette la “Royal Society’s Medal”. Il 1838 fu per lui un anno molto fertile, che portò il conferimento della medaglia e vide la pubblicazione di oltre 30 articoli scientifici. Due libri seguirono nei primi mesi dell’anno successivo.

Alla fine del 1838 Talbot riprese gli esperimenti sulla fotografia, con l’intento di preparare un documento da presentare alla Royal Society di cui era ormai illustre membro da sette anni.

Fu uno shock quando, alcune settimane dopo, giunsero da Parigi voci che Louis Jaques Mandè Daguerre aveva “bloccato” l’immagine della camera oscura. Mancando i dettagli, Talbot temette per la sua scoperta: non poteva dimostrare il proprio metodo durante l’uggioso e tutt’altro che assolato inverno inglese. Fu l’amico Michael Faraday che, nel gennaio di quell’anno, presentò alla “Royal Institution” alcune immagini di Fox ottenute nel 1835 ed ancora ben conservate. Così il 31 gennaio Talbot poté leggere il suo “Some Account of the Art of Photogenic Drawing” di fronte alla Royal Society.

Il metodo di Daguerre fu reso pubblico sette mesi dopo e risultò del tutto differente da quello di Talbot, ma ormai il danno era fatto: mentre il governo francese dette un notevole appoggio a Daguerre, la Royal Society non fornì supporto a Talbot, rifiutando di pubblicare il suo lavoro sulla fotografia nella rivista Transaction. Le cose migliorarono nel 1840, un’annata più calda e soleggiata della precedente: spronato dagli esperimenti di Herschel e dall’entusiastico supporto di Brewster, Talbot ottenne durante l’estate delle bellissime fotografie. Finalmente fu conscio che il proprio metodo era realmente efficace nel riprodurre, su di un foglio di carta, anche scene complesse della natura. Diciamolo: Talbot fu il primo grande “artista fotografo”.

Il primo metodo di Talbot, o disegno fotogenico, generava un negativo che, appena tolto dalla camera oscura, presentava già l’immagine completamente visibile. Il processo però era lungo e richiedeva tantissima luce. Continuando gli esperimenti, Talbot si accorse che una brevissima esposizione lasciava comunque tracce appena visibili sul negativo. Lavorò quindi per individuare sostanze chimiche che permettessero di sviluppare l’immagine anche dopo una brevissima esposizione alla luce. I tempi vennero ridotti da minuti, se non ore, a pochi secondi. Il metodo fu battezzato “calotype photogenic drawing” o semplicemente “calotype”, affettuosamente rinominato poi da alcuni amici “talbotype”. Questa volta il metodo fu prontamente brevettato, ma quel brevetto creò, in seguito, più patemi d’animo che guadagni. Anche se nel 1839 il metodo di Talbot, che richiedeva un duplice passaggio negativo/positivo, pareva in svantaggio rispetto al “dagherrotipo”, presto la possibilità di realizzare più copie partendo dal medesimo negativo trionfò, divenendo il sistema universalmente accettato per la produzione fotografica futura.

Nel 1844 Talbot pubblicò il libro “The Pencil of Nature” (**), illustrato con 24 “fotografie” originali. Tentò successivamente di aggiungere molte altre fotografie al libro, ma alcuni errori di fissaggio e l’uso di acque impure per il lavaggio fecero svanire rapidamente le immagini. La stampa di “Pencil of Nature” venne quindi interrotta, fermandosi a sole 24 immagini ed una tiratura limitata. Oggi ci restano solo 15 copie ben conservate.

Come accennato in precedenza, Talbot ebbe parecchie tribolazioni, in particolare dai brevetti, che non gli garantirono né guadagno né successo. Quattro brevetti in particolare riguardavano i sistemi di forza motrice, due la metallurgia e sei le applicazioni fotografiche. Questi ultimi gli arrecarono parecchi disagi. I termini del brevetto per il “calotype” erano generosi, ma frenarono comunque la diffusione della fotografia su carta. Nel ’52 fu costretto a rimuovere tutte le clausole relative alla produzione industriale dei ritratti, ma la rinuncia servì a poco: Talbot venne ripetutamente attaccato sulla stampa ed accusato di essersi appropriato del lavoro di altri scienziati, i quali asserivano di essere i veri inventori del metodo fotografico. Infine, durante la causa del dicembre del 1854, fu costretto addirittura a cancellare il brevetto: la corte lo riconobbe effettivamente come il vero inventore della fotografia, ma acconsentì che le stampe fotografiche potessero essere libere dal brevetto. Processi, stampa e maldicenze avvelenarono la sua reputazione in modo così marcato da far emergere, anche in seguito, molti pregiudizi nei suoi riguardi.

Photoglyphic engraving.

La sentenza rappresentò per Talbot una grande sconfitta ed il dolore s’aggiunse alla malattia che dal 1840 lo indeboliva. Limitato nella sperimentazione, smise di scattare fotografie. Si dedicò piuttosto a cercare soluzioni alternative per mantenere nel tempo le immagini. Incidendo la lastra fotografica l’immagine positiva veniva ottenuta con inchiostro stabile sulla carta: fu questo il metodo che chiamò “photoglyphic engraving”. Lo brevettò a suo nome ma non lo vide, in vita, sviluppato industrialmente: lo sfruttamento del brevetto avvenne infatti più propriamente nel secolo successivo. Durante l’Esibizione Internazionale di Londra del 1862 il processo conosciuto col nome di “photoglyphic engraving” vinse una medaglia.

Talbot continuò le sue ricerche ed i suoi studi sino al 17 settembre 1877.

Morì in seguito ad una lunga malattia, lasciandoci però un ampio archivio di appunti, fotografie e corrispondenza.

Il suo nome viene ricordato oggi in varie discipline scientifiche: in matematica con le “curve di Talbot”, in fisica con la “legge di Talbot” ed il “talbot”, che è un’unità di misura dell’energia luminosa. In seguito gli fu anche reso omaggio in botanica ed astronomia, legando il suo nome rispettivamente ad una specie floreale e perfino ad un cratere lunare!

Note

(*) .. tutto a seni ed a golfi… chi non ricorda l’incipit del grande romanzo di Alessandro Manzoni? Nei tempi andati quel pezzo di prosa veniva studiato a memoria. Il romanzo “I Promessi sposi” fu pubblicato nel 1827, giusto qualche anno prima che Talbot tentasse con il lapis di riprodurre, inutilmente, quella bellezza che invece il Manzoni aveva così efficacemente sintetizzato in poche righe di prosa.

(**) The Pencil of Nature. Lo potete lo travate su Amazon:

Vi sono riportate in originale tutte le fotografie della prima edizione con il testo accluso. Consiglio di sfogliarlo anche per la bellezza delle fotografie che Talbot scattò con una macchina fotografica che sua moglie aveva confuso con una “trappola per topi”. Diciamolo: sono migliori rispetto ai milioni di immagini riportate oggi su Facebook, scattate con apparecchiature costose e tecnologicamente avanzatissime.

 

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