La Scoperta di Niepce che garantì a Daguerre un vitalizio.
Si decise a 64 anni. Il momento di rendere pubblici i risultati delle sue ricerche era giunto.
All’epoca (siamo agli albori della rivoluzione industriale) non esisteva una cultura di impresa, e tuttavia Nicéphore Niepce sentiva che da solo non sarebbe riuscito a completare e divulgare le proprie scoperte. Si associò quindi ad uno scienziato più giovane di 22 anni, ma altrettanto interessato alla medesima disciplina. Fu stilato un contratto e vennero fissati gli obiettivi.
La materia prima con cui Nicephore lavorava era l’asfalto. Nulla a che vedere con i corridoi autostradali, però! L’asfalto ha una proprietà che non ci aspetteremmo: è sensibile alla luce.
Oggi (scrivo nel dicembre del 2013) si direbbe “asfalto un partito, asfalto certe persone, asfalto una generazione” (sto citando il sindaco di Firenze) o, tutt’al più, “asfalto la strada”! Ebbene, Nicephore asfaltava lamine di rame!
La ricerca che voleva brevettare (anche se all’epoca iI “brevetto” ancora non esisteva, ma il concetto è questo – vedi nota a piè di pagina) consisteva nello stendere uno strato di asfalto su di un foglio di rame o rame argentato, portare il foglio in una camera buia, praticare un piccolo foro negli scuri della finestra ed attendere che la luce “disegnasse” sul rame il panorama visibile al di là della finestra. Insomma, ottenere ciò che noi chiameremmo una fotografia!
Ecco, questa era stata la grande intuizione di Nicephore Niepce e la ricerca a cui aveva dedicato la sua vita a partire dall’età di 51 anni (il che non è poco se si considera che, alla fine del ‘700, la durata media della vita era di soli 35 anni). Riuscire a bloccare in modo permanente un’immagine su di una superficie materiale per conservarla era l’obiettivo che si era prefisso.
Come socio scelse Daguerre: un quarantaduenne, scenografo dell’Opera di Parigi, che da anni utilizzava il metodo della “camera oscura” per trasporre la realtà sui pannelli scenografici creati per le sue opere.
Ma cosa faceva esattamente Nicephore? Scioglieva l’asfalto, all’epoca chiamato “bitume di Giudea”, in una soluzione di essenza di lavanda (alcolica). Ne otteneva una sostanza gelatinosa che poteva spalmare sulla superficie di una lamina metallica che, lasciata asciugare, veniva poi esposta in una camera oscura. Dopo l’esposizione la lastra non presentava ancora alcuna immagine, ma se immersa in una soluzione alcolica (essenza di lavanda appunto) nelle zone che non avevano ricevuto luce la “gelatina” si scioglieva, lasciando come una crosta di vernice nei punti illuminati. La lastra presentava a quel punto in negativo l’immagine che l’aveva impressionata. Il passaggio successivo consisteva nell’immergere nuovamente la lastra in un bagno di acido che avrebbe corroso le parti non protette dal bitume. In seguito, asportando quest’ultimo, passando l’inchiostro sulla lamina ed infine su questa un foglio di carta, si otteneva l’immagine positiva. Il metodo era il medesimo delle incisioni all’acquaforte: validissimo per riprodurre una stampa od un’incisione ma non altrettanto per un’immagine panoramica, poiché le tonalità grigie non venivano riprodotte.
Niepce, nelle ricerche successive, esaminò altre sostanze sensibili alla luce e nuovi prodotti chimici come ad esempio lo iodio, una sostanza scoperta solo pochi anni prima (1811) da Cortois. A partire dal 1828, utilizzando lamine di metallo argentato lucido, sottopose il negativo a vapori corrosivi di iodio. Nei punti in cui il metallo era scoperto si formavano particelle di ioduro d’argento che, se sottoposte alla luce, si trasformavano in piccole particelle di argento metallico scure alla vista. Con alcool si toglieva poi la crosta di bitume restante, ottenendo un ottimo positivo.
Il procedimento complesso ed i tempi di esposizione troppo lunghi (si parla di giorni – 40 o 60 ore in giornate soleggiate) richiesero ulteriori studi, condotti nei quattro anni successivi assieme a Daguerre.
Venne messo a punto un nuovo procedimento che chiamarono physautotype: il bitume lascia il posto ad una resina che, stesa su di una lamina di metallo argentata e dopo l’esposizione in camera oscura, viene rivelata al vapore di petrolio bianco. L’immagine ottenuta è positiva, la risoluzione e le sfumature del grigio sono molto buone ed i tempi di esposizione vengono ridotti ad UNA GIORNATA.
Ormai avevano raggiunto l’obiettivo, ma Daguerre insisteva per non divulgare ancora la scoperta. Insistette troppo a lungo: Niepce ci lascia il 5 luglio 1833.
Rimasto solo, Daguerre continuò le ricerche: passò ad uno strato fotosensibile di ioduro d’argento, un rivelatore al vapore di mercurio ed il cloruro di sodio come fissatore.
Abbiamo così il dagherrotipo, che nel 1839 sarebbe stato presentato al mondo.
Come Niepce, anche Daguerre aveva presto sentito il bisogno di un supporto esterno per poter pubblicare i risultati della sua ricerca. Si affidò quindi a Francois Arago, segretario dell’Accademia delle Scienze ed influente uomo politico. Nell’agosto del 1839 la scoperta della fotografia fu finalmente resa pubblica.
In cambio di una soluzione che sarebbe definita con il termine odierno “open” (la procedura è completamente libera, utilizzabile e modificabile da tutti) Daguerre e l’erede di Niepce – Isidore ricevettero una pensione vitalizia. Per motivi politici fu preteso che la scoperta fosse attribuita ad un solo inventore: Daguerre.
Niepce, inventore della fotografia e del processo di foto incisione grazie al quale oggi si producono i microprocessori e le memorie dei calcolatori, fu così condannato all’oblio.
NOTA SUL “BREVETTO”: solo nel marzo del 1883 fu firmata la Convenzione di Unione di Parigi per la protezione della proprietà industriale, che tutelava la proprietà intellettuale.
NOTA SULL’IMMAGINE: Vista dalla finestra di Saint-Loup-de-Varennes. Questa fotografia, realizzata da Niépce, è la sola che sia giunta fino a noi. Si tratta di un negativo al bitume di Giudea, sottoesposto, su stagno bianco riflettente. La vernice rimasta sulle zone illuminate dell’immagine è stata attaccata dal solvente a causa della sottoesposizione, ed è divenuta opaca. Nella penombra e in luce obliqua, lo stagno riflette l’ombra (zone scure), mentre la vernice, che diffonde la luce, appare chiara (zone bianche): l’immagine sembra un positivo. Il fatto che i due muri opposti a destra e a sinistra siano simultaneamente illuminati testimonia della lunghezza del tempo di esposizione (almeno una giornata). Questa fotografia dell’immagine ottenuta da Niépce è stata realizzata in luce radente nel 1952. Nella stampa, il contrasto è stato aumentato artificialmente, e poi la fotografia è stata ritoccata. Ciò che ne risulta è abba- stanza diverso dalla lamina impressionata da Niépce. (RIPORTATA DA LE SCIENZE N. 343 Marzo 1997)
Bibliografia:
Wikypedia
Jean-Luis Marignier / Michel Ellenberger – “L’invenzione ritrovata della fotografia”, Le Scienze N. 343 (marzo 1997)
© Roberto Salvatori
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